Le Mille e Una Notte Storia Dell'Uomo Addormentato Ridestato.
Le Mille e Una Notte Grandi Classici Cultura I Grandi Classici Cultura Didattica Educazione Le Mille e Una Notte Storia Dell'Uomo Addormentato Ridestato [Parte intera 216KB] Le Mille e Una Notte Storia dell'Uomo addormentato ridestato [Parte prima] Le Mille e Una Notte Storia Dell'Uomo Addormentato Ridestato [Seconda parte] Le mille e una notte Storia dell'Uomo addormentato ridestato [Terza parte] Le Mille e Una Notte Storia Dell'Uomo Addormentato Ridestato [Quarta parte] Le Mille e Una Notte Storia Dell'Uomo Addormentato Ridestato [Quinta parte] Parte intera Prima parte Seconda parte Terza parte Quarta parte Quinta parte I Grandi Classici - Le Mille e Una Notte Storia Dell'Uomo Addormentato Ridestato [Parte terza] Questa usanza è tanto più lodevole, in quanto è necessario avere la mente lucida durante il giorno per badare agli affari, e inoltre, non bevendo vino se non la sera, durante il giorno non si vedono in giro ubriachi che provochino disordini nelle strade di quella città. Abu-Hassàn entrò dunque in questo quarto salone, avvicinandosi alla tavola. Quando vi fu seduto, si fermò come in estasi a contemplare le sette dame, che gli stavano intorno e le trovò più belle di quelle che aveva vedute negli altri saloni. Desiderò di conoscere il nome di ciascuna, ma poiché il rumore della musica, e specialmente dei cembali, non permetteva di udire, batté le mani per farlo cessare, e subito si fece un gran silenzio. Allora, prendendo per la mano la dama che gli stava più vicina, la fece sedere, e dopo averle offerto una sfogliata, le chiese come si chiamasse. "Gran principe dei credenti", rispose la dama, "il mio nome è Vezzo di Perle." "Non vi si poteva dare un nome più adatto", rispose Abu-Hassàn, "e che meglio mettesse in risalto i vostri pregi: ma senza biasimare chi ve lo ha imposto, trovo che i vostri bellissimi denti oscurano la più bell'acqua di tutte le perle che vi siano al mondo. Vezzo di Perle", soggiunse, "giacché questo è il vostro nome, fatemi la grazia di pigliare un bicchiere, e di porgermi da bere con la vostra bella mano!" La dama andò subito alla credenza, e ritornò con un bicchiere pieno di vino, che con bel garbo porse ad Abu-Hassàn. Egli lo prese con moltissimo piacere, e guardandola le disse: "Vezzo di Perle, io bevo alla vostra salute! Vi prego di versarne altrettanto per voi e di contraccambiarmi!". Ella corse subito alla credenza, e ritornò col bicchiere in mano: ma prima di bere, cantò una canzone che lo conquistò per la sua novità, e ancor più per il fascino della sua voce. Abu-Hassàn, dopo aver bevuto, scelse quello che gli piacque di più sui vassoi, e lo offrì a un'altra dama che fece sedere accanto a sé. Le chiese il suo nome e seppe che era Stella del Mattino. "I vostri begli occhi", rispose, "hanno più splendore e luminosità della stella di cui portate il nome. Andate e fatemi il piacere di portarmi da bere." Ella subito obbedì con la maggior cortesia possibile. Fece poi lo stesso con la terza dama, che si chiamava Luce del Giorno, e via via con le altre fino alla settima; e tutte gli versarono da bere con grande gioia del califfo. Quando Abu-Hassàn ebbe terminato di bere tante volte quante erano le dame, Vezzo di Perle - la prima alla quale si era rivolto - andò alla credenza, prese un bicchiere, che riempì dopo avervi gettato un pizzico di quella polvere, di cui il califfo si era servito il giorno precedente. "Gran principe dei credenti", gli disse, "supplico la maestà vostra, per l'interesse che porto alla conservazione della sua salute, di gradire questo bicchiere di vino, e farmi la grazia, prima di berlo, di ascoltare una canzone, che spero non le dispiacerà. Appunto oggi l'ho composta, e nessuno l'ha ancora udita." "Vi concedo questa grazia con piacere", le disse Abu-Hassàn, prendendo il bicchiere che essa gli porgeva, "e vi comando, come gran principe dei credenti di cantarmela, poiché sono persuaso che una persona bella come voi può comporre solo canzoni molto piacevoli e piene di spirito." La dama prese un liuto e cantò la canzone, accompagnando la sua voce col suono di questo strumento, con tanta grazia, brio ed espressione, che tenne Abu-Hassàn come in estasi dal principio alla fine. Egli la giudicò tanto bella, che gliela fece ripetere, e ne restò ancor più dilettato della prima volta. Quando la dama ebbe terminato, Abu-Hassàn, che voleva elogiarla come meritava, vuotò prima tutto d'un fiato il bicchiere, e poi volse il capo verso la dama come per parlare, ma ne fu impedito dalla polvere che produsse il suo effetto così in fretta, che egli poté solo aprire la bocca balbettando. Subito i suoi occhi si chiusero, e, lasciando cadere il capo sulla tavola, come un uomo vinto dal sonno, si addormentò profondamente come aveva fatto il giorno precedente alla stessa ora, quando il califfo gli aveva somministrato la stessa polvere. Nello stesso istante, una delle dame, che si trovava vicino a lui, fu sollecita ad afferrare il bicchiere, che egli si era lasciato sfuggire di mano. Il califfo, che aveva voluto darsi questo divertimento e che vi aveva trovato una soddisfazione molto maggiore di quella che si aspettava, era stato spettatore anche di quest'ultima scena, come di tutte le altre. Finalmente uscì dal luogo dov'era, e comparve nel salone tutto allegro perché era riuscito in quanto si era proposto. Comandò che Abu-Hassàn fosse spogliato dell'abito di califfo, e che gli fosse rimesso addosso quello che portava il giorno precedente, quando lo schiavo che lo accompagnava l'aveva trasportato nel suo palazzo. Fece poi chiamare lo stesso schiavo, e quando questi si fu presentato, gli disse: "Prendi quest'uomo e riportalo a casa sua sul sofà, senza fare rumore, e nel ritirarti, lascia aperta la porta". Lo schiavo prese Abu-Hassàn, lo portò fuori, passando per la porta segreta del palazzo, lo riportò in casa sua, come il califfo aveva ordinato, e ritornò rapidamente a rendergli conto di quanto aveva fatto. "Abu-Hassàn", disse allora il califfo, "aveva espresso il desiderio di essere califfo per un giorno solo per poter castigare l'imàm della moschea del suo quartiere, e i quattro sceicchi, la cui condotta non gli piaceva. Gli ho procurato il mezzo per soddisfare il suo desiderio e ne sono assai contento." Abu-Hassàn, adagiato sopra il suo sofà dallo schiavo, dormì fino al giorno seguente molto tardi, e non si svegliò se non quando la polvere, che era stata gettata nell'ultimo bicchiere che aveva bevuto, non ebbe compiuto il suo effetto. Aprendo allora gli occhi, restò molto sorpreso di vedersi in casa sua. "Vezzo di Perle, Stella del Mattino, Alba del Giorno, Bocca di Corallo, Volto di Luna", gridò, chiamando per nome le dame del palazzo, che gli avevano tenuto compagnia, quante poté ricordarsene, "dove siete? Venite, accostatevi." Poiché Abu-Hassàn gridava con quanta forza aveva, sua madre lo udì dal suo appartamento e accorse allo strepito. Entrando nella sua camera: "Che hai figlio mio?", gli domandò, "che succede?" A queste parole Abu-Hassàn alzò il capo, e guardando sdegnosamente sua madre: "Buona donna", le disse, "chi è dunque quello che tu chiami tuo figlio?". "Sei tu quello!", rispose la madre con molto garbo. "Non sei forse Abu-Hassàn, mio figlio? Sarebbe strano davvero che in così poco tempo te ne fossi dimenticato." "Io? figlio tuo, vecchiaccia?", ripigliò Abu-Hassàn. "Non sai quello che dici, e sei una bugiarda! Io non sono l'Abu-Hassàn che dici; io sono il gran principe dei credenti!" "Taci, figlio mio", riprese la madre, "ciò che dici non è saggio. Saresti creduto pazzo, se qualcuno ti udisse!" "Tu, sei una vecchia pazza", replicò Abu-Hassàn, "non io, come tu dici. Ti ripeto che sono il gran principe dei credenti, il vicario in terra del padrone dei due mondi." "Ah! figlio mio", esclamò la madre, "è possibile che io oda queste parole che rivelano una pazzia tanto grande? Quale genio maligno ti possiede, perché tu pronunci un simile discorso? La benedizione del cielo giunga su di te e ti liberi dalla malignità di Satana. Tu sei il mio figlio Abu-Hassàn, e io sono tua madre!" Dopo avergli date tutte le prove che poté immaginare per farlo rientrare in sé e per fargli riconoscere il suo errore, continuò: "Non vedi che questa camera è la tua e non quella del gran principe dei credenti, e che vi hai sempre vissuto, da quando sei nato, abitandovi con me? Pensa a quanto ti dico, e non metterti in mente cose che non sono, e che non possono essere; una volta ancora, figlio mio, pensaci!". Abu-Hassàn ascoltò con calma queste rimostranze di sua madre, con gli occhi bassi e il mento appoggiato alla mano come un uomo che rientra in sé per esaminare la verità di quanto vede e ode. "Credo che voi abbiate ragione", disse a sua madre qualche momento dopo, risvegliandosi come da un profondo sonno, senza però cambiare di posizione, "mi pare in verità di essere Abu-Hassàn, e che voi siate mia madre, e che io stia nella mia camera. Una volta ancora", soggiunse, guardandosi da capo a piedi ed osservando quanto vedeva, "sono Abu-Hassàn, non ne dubito, e non comprendo come mi fossi messo in mente questa idea." La madre credette in buona fede che suo figlio fosse risanato dal turbamento che agitava il suo spirito e che essa attribuiva a un sogno. Si preparava a riderne con lui, e a interrogarlo su questo sogno, quando all'improvviso lui si mise a sedere, e guardandola con occhio bieco: "Vecchia strega, vecchia maga!", gridò. "Tu non sai ciò che dici! Io non sono tuo figlio, tu non sei mia madre. Tu inganni te stessa e vuoi ingannare anche me! Ti dico che io sono il gran principe dei credenti, né mi persuaderai del contrario!". "Ti prego, figlio mio, raccomandati al cielo e non tenere questo linguaggio, potrebbe accaderti qualche sventura; parliamo piuttosto di tutt'altro, e lascia che narri quanto è successo ieri nel nostro quartiere all'imàm della nostra moschea, e ai quattro sceicchi nostri vicini. Il luogotenente di polizia li ha fatti prendere e, dopo aver fatto dare in sua presenza a ciascuno non so quanti colpi con un nerbo di bue, ha fatto pubblicare da un banditore che tale era il castigo per quelli che si immischiano negli affari che non li riguardano, e che si divertono a seminare la discordia e la confusione nelle famiglie dei loro vicini. Poi li ha condotti in giro per tutti i quartieri della città con lo stesso annuncio e ha proibito loro di rimettere piede nel nostro quartiere." La madre di Abu-Hassàn, non potendo immaginare che il figlio avesse avuto qualche parte nel fatto che gli narrava, aveva di proposito cambiato discorso, e considerato il racconto di questo fatto come un mezzo adatto a cancellare la fantasia che gli turbava la mente, di essere cioè il gran principe dei credenti. Guadagnare navigando! Acquisti prodotti e servizi. Guadagnare acquistando online. Ma ottenne l'effetto contrario: questo racconto, invece di cancellare la sua convinzione di essere il gran principe dei credenti, non servì che a confermargliela, e ad imprimergliela tanto profondamente nell'immaginazione, da sembrargli non già fantastica, ma reale. Sicché appena Abu-Hassàn ebbe udito tale racconto, esclamò: "Io non sono tuo figlio, né Abu-Hassàn! Certamente sono il gran principe dei credenti, e non posso più dubitare dopo quanto tu stessa mi hai detto. Sappi che mentre esercitavo il potere di gran principe dei credenti, per mio preciso ordine l'imàm e i quattro sceicchi sono stati castigati nella maniera che mi hai riferito. Io dunque sono veramente il gran principe dei credenti, ti ripeto, e smettila di dirmi che questo è un sogno. Io non dormo ora ed ero sveglio ugualmente allora come lo sono in questo momento". La madre, che non poteva indovinare e neppure immaginare perché il suo figlio sostenesse tanto vivamente di essere il califfo, non dubitò più che egli avesse perso la ragione. Convinta da questo pensiero, gli disse: "Figlio mio, prego il cielo che abbia pietà di te, e ti conceda misericordia! Smetti, figlio mio, di tenere un discorso tanto privo di buon senso. Rivolgiti al cielo, e domandagli perdono e insieme la grazia di tornare a parlare come un uomo ragionevole. Che mai si direbbe di te se ti si udisse parlare in tal modo? Non sai che in questi casi anche le mura hanno orecchie?". Tante rimostranze, invece di ammansire lo spirito di Abu-Hassàn, non servirono che ad inasprirlo maggiormente. Egli si lasciò trasportare con maggior violenza dell'ira contro sua madre. "Vecchia", le disse, "ti ho già avvisata di stare zitta! Se continui, mi alzerò, e ti tratterò in tal maniera, che per tutto il resto dei tuoi giorni te ne ricorderai. Io sono il califfo, il gran principe dei credenti, e tu lo devi credere perché te lo dico io." La buona donna allora, nel vedere che Abu-Hassàn usciva sempre più di senno, si abbandonò al pianto, alle lacrime e schiaffeggiandosi il viso, percuotendosi il petto, proruppe in esclamazioni, che ben dimostravano la sua meraviglia e il suo profondo dolore nel vedere suo figlio in preda di una pazzia tanto orribile! Abu-Hassàn, invece di calmarsi e di lasciarsi muovere a pietà dalle lacrime di sua madre, al contrario, si infuriò fino a perdere verso di lei tutto quel rispetto che la natura gli ispirava. Si alzò sdegnosamente, afferrò un bastone, e andandole incontro con la mano alzata, furibondo: "Vecchia maledetta", le disse, nella sua stravaganza e con voce propria ad ispirar timore ad ogni altro, fuorché a una madre che l'amava teneramente, "dimmi subito chi sono". "Figlio mio", rispose la madre, amorosamente guardandolo invece d'intimorirsi, "io non ti credo abbandonato dal cielo a tal punto da non conoscere quella che ti ha dato la luce e di non conoscere te stesso. Io non fingo quando ti dico che sei mio figlio Abu-Hassàn e che hai gran torto di arrogarti un titolo che spetta solamente al califfo Harùn ar-Rashìd, tuo e mio sovrano; questo monarca ci ha colmati di benefici col regalo che mi ha mandato; perché devi sapere che il gran visir si diede ieri la pena di venire a cercarmi per consegnarmi una borsa con mille dinàr, dicendomi di pregare il cielo per il gran principe dei credenti, che mi mandava questo regalo. Questa generosità riguarda più te di me, cui non restano se non pochi giorni da vivere." A queste parole, Abu-Hassàn perse ogni ritegno. I particolari della generosità del califfo, che sua madre gli aveva narrati, gli dimostravano che non si era ingannato, e lo persuadevano più che mai di essere il califfo, giacché il visir aveva portato quella borsa per suo ordine. "Ebbene, vecchia!", esclamò, "sarai convinta quando ti dirò che sono stato io che ti ho mandato quei dinàr per mezzo del mio gran visir Giàafar, che non ha fatto che eseguire l'ordine che gli avevo imposto come gran principe dei credenti? E tu, invece di credermi, cerchi solo di confondermi con le tue menzogne, e sostieni ostinatamente che sono tuo figlio: ma non lascerò più a lungo impunita la tua malvagità." Nel terminare queste parole, nell'accesso della sua furia, divenne così snaturato che la percosse senza pietà col bastone che teneva in mano. La povera madre, che non aveva creduto che suo figlio sarebbe passato tanto in fretta dalle minacce ai fatti, sentendosi bastonata, proruppe in grandi grida, implorando aiuto: ma, finché i vicini non accorsero, Abu-Hassàn non smise di batterla, chiedendole ad ogni colpo: "Sono il gran principe dei credenti?". Al che la madre rispondeva sempre con queste affettuose parole: "Tu sei mio figlio!". Il furore di Abu-Hassàn cominciava a calmarsi un poco, quando entrarono nella camera i vicini. Il primo che giunse s'intromise subito fra la madre e lui, e dopo avergli levato a viva forza dalle mani il bastone, gli disse: "Orsù che fate, Abu-Hassàn? Avete perso il timore di Dio e la ragione? Un buon figlio come voi, non può osare di alzare la mano contro sua madre! Non vi vergognate di maltrattare in tal modo la vostra, che tanto vi ama?". Abu-Hassàn, ancora tutto pieno di furore, guardò quello che gli parlava senza rispondergli nulla, girando nello stesso tempo gli occhi stravolti su ognuno degli altri vicini che l'accompagnavano. "Chi è questo Abu-Hassàn, di cui parlate?", domandò infine, "sono io quello che chiamate con questo nome?" Questa domanda sconcertò un poco i vicini. "Come!", riprese quello che già aveva parlato, "dunque non riconoscete la donna che avete davanti, che vi ha allevato, e con la quale vi abbiamo sempre visto abitare, in una parola, vostra madre?" "Voi siete degli impertinenti", replicò Abu-Hassàn. "Io non la conosco e non vi conosco, né voglio conoscerla. Io non sono Abu-Hassàn, sono il gran principe dei credenti, e se non lo sapete ve lo farò imparare a vostre spese." A questo discorso di Abu-Hassàn, i vicini non dubitarono più della sua pazzia, e per impedire che desse in escandescenza, come aveva fatto prima contro sua madre, lo gettarono a terra e lo legarono in maniera da impedirgli l'uso delle mani e dei piedi, e benché fosse in condizione da non poter nuocere, nondimeno giudicarono opportuno non lasciarlo solo con sua madre. Due della compagnia, senza por tempo in mezzo, andarono all'ospedale dei matti ad avvisare il custode di quanto era avvenuto. Egli accorse subito con i vicini, ma accompagnato da un buon numero delle sue genti, cariche di catene, di manette e di un nerbo di bue. Al loro arrivo, Abu-Hassàn, che non si aspettava una cosa così orribile, fece grandi sforzi per liberarsi: ma il custode, che si era fatto porgere un nerbo di bue, in breve lo ridusse alla ragione con due o tre colpi ben assestati sulle spalle. Questo trattamento fece tanta impressione ad Abu-Hassàn, che divenne mansueto, e il custode con le sue genti fecero di lui ciò che vollero, senza che tentasse di opporsi. Lo legarono con catene, manette e ceppi, e lo condussero all'ospedale dei matti. Abu-Hassàn, appena fu in strada, fu circondato da una grande folla. Chi gli dava un pugno, chi uno schiaffo, altri lo coprivano d'ingiurie trattandolo da pazzo, da insensato e da stravagante. A tutti questi orribili trattamenti, rispondeva: "Non vi è grandezza e forza che nell'immenso ed onnipotente Dio. Si pretende che io sia pazzo, benché sia perfettamente sano di mente; soffro questa ingiuria, e tutte queste indegnità per amore di Dio!". Abu-Hassàn fu condotto fino all'ospedale dei matti. Vi fu accolto, e legato in una gabbia di ferro, e prima di rinchiudervelo, il custode, destinato a questo orribile incarico, gli diede senza pietà cinquanta colpi di nerbo di bue sopra le spalle e sopra la schiena. Continuò per più di tre settimane a fargli lo stesso trattamento e ogni volta gli ripeteva queste stesse parole: "Rientra in te stesso, e dimmi se sei ancora il gran principe dei credenti". "Non ho bisogno del tuo consiglio", rispondeva Abu-Hassàn, "io non sono pazzo: ma se dovessi diventarlo, nulla potrebbe cagionarmi una tale disgrazia, quanto le bastonate di cui mi carichi." La madre di Abu-Hassàn frattanto andava a visitare suo figlio regolarmente ogni giorno, e non poteva contenere le lacrime vedendo che ogni giorno diventava più pallido e perdeva le forze, e udendolo lamentarsi e sospirare per i molti tormenti che soffriva. Infatti egli aveva le spalle, la schiena e le costole nere e peste, e non sapeva da che parte girarsi per trovare riposo. Sua madre voleva parlargli per consolarlo, e per cercare di sapere se era sempre fisso nella sua idea di essere il califfo e gran principe dei credenti. Ma ogni volta che s'accingeva a parlargliene, lui la rimproverava con tanto sdegno, che era costretta a lasciarlo e a ritornarsene a casa sconsolata, vedendolo in tale ostinazione. Il ricordo forte e preciso che Abu-Hassàn aveva conservato nella sua mente di essersi visto col vestito da califfo, di averne veramente esercitate le funzioni, di aver fatto uso della sua autorità, di essere stato obbedito e trattato veramente da califfo, e che l'aveva persuaso al suo risveglio d'esserlo realmente, così che aveva durato a lungo in quell'errore, cominciò insensibilmente a cancellarsi dalla sua mente. "Se io fossi il califfo e il gran principe dei credenti", diceva qualche volta a se stesso, "come mai mi sarei risvegliato in casa mia e col mio solito vestito? Perché non mi sarei ritrovato circondato dal capo degli eunuchi, da tanti altri eunuchi e da una moltitudine di belle dame? Perché il gran visir Giàafar, che ho visto ai miei piedi, e gli emiri, i governatori delle province, e gli altri ufficiali, dai quali ero attorniato, mi avrebbero abbandonato? Certamente mi avrebbero liberato già da gran tempo dallo stato deplorevole in cui sono, se avessi qualche autorità sopra di loro. Tutto ciò è stato solo un sogno, e devo persuadermene. Ma è anche vero che ho comandato al luogotenente di polizia di castigare l'imàm e i quattro vecchi del suo consiglio e ho ordinato al gran visir Giàafar di portare mille dinàr a mia madre, e i miei ordini sono stati eseguiti. Ciò mi cagiona dei dubbi, e non capisco più nulla. Ma quante altre cose vi sono che non capirò mai? Mi rimetto dunque nelle mani di Dio, che tutto sa e tutto conosce." Abu-Hassàn era ancora occupato in questi pensieri e in questi sentimenti, quando giunse sua madre. Ella lo vide talmente estenuato e smunto, che versò ancor più lacrime di quanto non avesse fatto fino ad allora. In mezzo ai suoi singhiozzi, lo salutò col suo saluto solito ed Abu-Hassàn glielo restituì, contrariamente a quanto aveva fatto da quando era all'ospedale. Ne trasse un buon presagio, e gli disse, asciugandosi le lacrime: "Ebbene, figlio mio, come stai? In che condizione si trova il tuo spirito? Hai rinunciato a tutte le tue fantasie, e alle idee che lo spirito malefico ti ha suggerito?". "Madre mia", rispose Abu-Hassàn molto tranquillo e con un modo che ben dimostrava il dolore che provava per il furore con cui l'aveva trattata, "riconosco il mio errore, ma vi prego di perdonarmi l'esecrabile delitto che ho commesso contro di voi. Fate la medesima preghiera ai nostri vicini, per lo scandalo che ho dato loro. Sono stato ingannato da un sogno tanto stravagante, e tanto verosimile, che posso asserire che ogni altro cui fosse accaduto, non ne sarebbe stato meno impressionato, e sarebbe forse caduto in stravaganze maggiori di quelle che mi avete visto fare. Ne sono ancora così confuso, mentre vi parlo, che ho gran pena a persuadermi che quanto mi è accaduto sia proprio un sogno, tanto è simile a quello che accade fra persone che non dormono. Comunque sia, credo e voglio credere che sia un sogno e un'illusione. Sono convinto di non essere un fantasma di califfo, o di gran principe dei credenti, ma Abu-Hassàn vostro figlio, di voi, dico, che ho sempre onorata fino a quel giorno fatale, che ancora mi fa arrossire, e che onorerò per tutta la mia vita come devo." A queste parole tanto sagge e tanto prudenti, le lacrime di dolore, di compassione e di afflizione che la madre di Abu-Hassàn versava da gran tempo, si trasformarono in lacrime di gioia, di consolazione e di profondo amore per il suo caro figlio che finalmente ritrovava. "Figlio mio", esclamò piena di gioia, "io mi sento così felice e piena di soddisfazione, sentendoti parlare tanto ragionevolmente dopo quanto è accaduto, come se ti avessi dato alla luce una seconda volta. Bisogna che ti dica il mio pensiero su questa avventura, e ti faccia osservare una cosa, che forse non hai considerato. Lo straniero che hai condotto una sera a cenare con te, partì senza chiudere la porta della tua camera come gli avevi raccomandato, ed io credo che questo abbia dato occasione allo spirito malefico di entrarvi, e di sprofondarti nell'orribile illusione in cui eri. Sicché, figlio mio, devi ora ringraziare il cielo di avertene liberato, e pregarlo di preservarti dal cadere ancora nelle reti dello spirito maligno." "Voi avete trovata la sorgente del mio male", rispose Abu-Hassàn, "proprio in quella notte feci quel sogno che mi turbò la mente. Avevo avvisato chiaramente il mercante di chiudere la porta, e ora mi dici che non l'ha fatto. Sono dunque persuaso con voi che lo spirito malefico, avendo trovato la porta aperta, sia entrato, mettendomi tutte queste fantasie in testa. Ma ora, in nome di Maometto, madre mia, giacché per la grazia del cielo, mi vedete perfettamente guarito dal turbamento in cui ero, vi supplico, quanto un figlio può supplicare una madre così buona quale voi siete, di farmi uscire al più presto da questo inferno e di liberarmi dalle mani del carnefice, che certamente mi farà morire, se resto ancora qui." La madre di Abu-Hassàn, perfettamente consolata e intenerita nel vedere che Abu-Hassàn era completamente guarito della sua pazza idea di essere califfo, andò subito a cercare il custode, a cui era stato affidato fino allora. Gli disse che era perfettamente ristabilito nel suo senno, ed egli venne, l'esaminò e lo mise subito in libertà. Abu-Hassàn ritornò a casa sua, e vi si trattenne per molti giorni per ristabilirsi in salute mangiando cibi migliori di quelli che gli avevano dato all'ospedale dei matti. Ma appena ebbe interamente recuperato le forze così che non risentiva più le conseguenze dei pessimi trattamenti che aveva subito in carcere, cominciò ad annoiarsi di passare le sere senza compagnia, e non tardò molto a riprendere le stesse abitudini di prima; ricominciò cioè a fare la provvista sufficiente a invitare un ospite nuovo ogni sera. Il giorno in cui riprese ad andare al tramonto del sole sul ponte di Bagdàd per fermarvi il primo forestiero che gli si fosse presentato, e pregarlo di fargli l'onore di andare a cena con lui, era il primo del mese, il giorno, cioè, come già abbiamo detto, in cui il califfo si divertiva ad andare travestito fuori da qualche porta della città, per osservare di persona se si contravveniva alle regole che egli aveva stabilite all'inizio del suo regno. Abu-Hassàn era giunto da poco e si era seduto su un banco, allorché girando gli occhi verso l'altro capo del ponte, scorse il califfo che gli veniva incontro, travestito da mercante di Mussul, come la prima volta, e accompagnato dallo stesso schiavo. Persuaso che tutto il male che aveva sofferto derivasse dal fatto che il califfo, che egli conosceva come un mercante di Mussul, aveva lasciato la porta aperta nell'uscire dalla sua camera, vedendolo fremette. "Il cielo mi preservi!", disse fra sé. "Ecco, se non m'inganno, il mago che mi ha stregato!" Volse subito il capo verso il fiume, appoggiandosi al parapetto per non vederlo, finché fosse passato. Il califfo, che voleva prolungare il piacere che già si era preso con Abu-Hassàn, si era preoccupato di farsi tenere al corrente di quanto aveva detto e fatto il giorno seguente al suo risveglio in casa sua, e di quanto gli era accaduto. Si divertì molto di tutto ciò che gli venne riferito, e perfino del pessimo trattamento che aveva ricevuto all'ospedale dei matti. Ma poiché questo monarca era generoso e giustissimo, e aveva inoltre riconosciuto in Abu-Hassàn uno spirito capace di divertirlo, non dubitando che, dopo aver rinunciato alla sua presunta dignità di califfo, egli avrebbe ripreso la sua vita, come prima, giudicò opportuno, per attirarlo a sé, di travestirsi, il primo del mese, da mercante di Mussul come la prima volta, allo scopo di conseguire quanto aveva stabilito a suo riguardo. Vide dunque Abu-Hassàn quasi nello stesso tempo in cui egli lo scorse: e al suo gesto capì che era adirato con lui, e voleva evitarlo. Ciò l'indusse ad andare rasente al parapetto dove stava Abu-Hassàn andandogli il più vicino possibile. Quando gli fu accanto chinò il capo e lo guardò in faccia dicendogli: "Siete voi, dunque, fratello mio Abu-Hassàn? Io vi saluto, e vi prego di permettermi di abbracciarvi". "E io", rispose sdegnosamente Abu-Hassàn senza guardare il finto mercante di Mussul, "io non vi saluto; non desidero né il vostro saluto né i vostri abbracci. Andate per la vostra strada!" "E come!", ripigliò il califfo. "Non mi riconoscete? Non vi ricordate di quella sera che passammo insieme, giusto un mese fa in casa vostra, dove mi faceste l'onore di trattarmi con tanta generosità?" "No", replicò Abu-Hassàn con lo stesso tono di prima, "non vi riconosco, né so di che vogliate parlare. Andatevene, ve lo ripeto per la seconda volta, e continuate la vostra strada." Il califfo non fece caso dell'alterazione di Abu-Hassàn, sapendo che una delle sue regole consisteva nel non aver più nulla a che fare con i forestieri che aveva invitato una volta, come Abu-Hassàn stesso gli aveva detto. Tuttavia voleva far destramente finta di ignorarla. "Non posso credere", riprese, "che voi non mi conosciate; non è molto tempo che ci siamo visti, e non è possibile che vi siate dimenticato di me con tanta facilità. Bisogna che vi sia accaduta qualche disgrazia, che ha provocato tanta collera contro di me. Dovreste ricordarvi però che vi ho attestato la mia gratitudine con molti auguri di felicità e anche che, per una certa cosa che vi stava molto a cuore, vi ho offerto il mio aiuto, che non merita tutto il disprezzo che mi dimostrate." "Non so", riprese Abu-Hassàn, "quale potesse essere il vostro aiuto, né ho la minima voglia di metterlo alla prova; so però che i vostri presagi non hanno fatto altro che farmi diventare pazzo. In nome di Maometto, vi ripeto ancora una volta di proseguire per la vostra strada e di non infastidirmi." "Ah! fratello mio Abu-Hassàn", replicò il califfo, abbracciandolo, "non posso separarmi da voi in questo modo! Giacché la mia buona sorte ha voluto che per una seconda volta vi incontrassi, dovete ospitarmi ancora come un mese fa, affinché abbia l'onore di bere un'altra volta in vostra compagnia." Abu-Hassàn protestò che se ne sarebbe ben guardato. "Sono padrone di me stesso quanto basta", soggiunse, "per non lasciarmi convincere a stare di nuovo con un uomo come voi, che porta con sé il malaugurio. Conoscete il proverbio che dice: "Pigliate il vostro fardello sulle spalle e sloggiate"? Seguitelo. Devo ripetervelo ancora? Il cielo vi guidi! Mi avete portato tanto male, che basta." "Mio caro amico Abu-Hassàn", riprese il califfo abbracciandolo ancora una volta, "voi mi trattate con un'asprezza che non mi aspettavo. Vi supplico di non farmi un discorso tanto offensivo, e di essere al contrario persuaso della mia amicizia. Fatemi dunque la grazia di dirmi quanto vi è accaduto; ditelo a me che desidero solo il vostro bene, che ve lo auguro ancora, e vorrei trovare ogni occasione di farvene, per riparare al male che vi avrei causato a quanto dite, se pure è mia la colpa di quello che dite." Abu-Hassàn si arrese alle insistenze del califfo, e, dopo averlo fatto sedere vicino a sé: "La vostra incredulità e la vostra insistenza", gli disse, "mi hanno fatto perdere la pazienza, e ciò che ora vi narrerò vi dimostrerà che non a torto ce l'ho con voi". Il califfo si sedette vicino ad Abu-Hassàn, che gli narrò tutte le avventure che gli erano capitate da quando si era destato nel palazzo, fino al suo secondo risveglio nella sua camera, e gliele raccontò come se fossero state un sogno e con una infinità di particolari che il califfo conosceva quanto lui, e che rinnovarono il divertimento che ne aveva avuto la prima volta. Gli descrisse poi l'impressione che gli era rimasta nella mente dopo questo sogno di essere davvero il gran principe dei credenti. "Impressione", soggiunse, "che mi aveva messo in uno stato così stravagante, che i miei vicini furono costretti a legarmi come un pazzo furioso e a farmi condurre all'ospedale dei matti dove sono stato trattato in una maniera che si può chiamare crudele, barbara e inumana: ma ciò che vi sorprenderà, e che senza dubbio non v'immaginate, è che tutte queste cose mi sono accadute per colpa vostra. Vi ricorderete della raccomandazione che vi avevo fatta di chiudere la porta della mia camera: voi non l'avete fatto, e anzi l'avete lasciata aperta, e così lo spirito maligno è entrato, e mi ha riempito la mente con questo sogno che, quantunque mi fosse sembrato piacevole, pur tuttavia è stato causa di tutti i mali che ho sofferto. Voi dunque siete responsabile, per la vostra negligenza, del mio delitto, mi avete fatto commettere una cosa iniqua e detestabile, poiché non solamente ho inveito contro mia madre percuotendola, ma anche poco è mancato che non la facessi morire ai miei piedi, commettendo un matricidio! E tutto ciò per una ragione che mi fa arrossire di vergogna ogni volta che ci penso, giacché ciò accadde perché mi chiamava suo figlio, come veramente sono, non volendo ammettere che fossi il gran principe dei credenti come io credevo di essere, e come ostinatamente sostenevo. Siete causa inoltre dello scandalo che ho dato ai miei vicini, allorché, accorsi alle grida della mia povera madre, mi sorpresero mentre infuriato volevo ucciderla: il che senza dubbio non sarebbe accaduto, se aveste avuto l'attenzione di chiudere la porta della mia camera, uscendone, come io stesso vi avevo pregato di fare. Essi non sarebbero infatti entrati in casa senza il mio permesso, e non sarebbero stati testimoni della mia pazzia, cosa che accresce la mia pena. Non sarei stato obbligato a batterli, difendendomi da loro, né mi avrebbero maltrattato e legato, come hanno fatto, per condurmi e farmi rinchiudere nell'ospedale dei matti, dove posso assicurarvi che ogni giorno, per tutto il tempo che sono stato trattenuto in quell'inferno, non hanno mai trascurato di darmi molte bastonate col nerbo di bue!" Abu-Hassàn narrava al califfo, con molto calore e veemenza, i motivi di lagnanza che aveva contro di lui. Il califfo sapeva meglio di lui quanto era avvenuto e sentiva grande soddisfazione per essere riuscito in ciò che aveva ideato, per averlo messo in uno stato di smarrimento in cui ancora lo vedeva: ma non poté ascoltare questo racconto, fatto con tanta ingenuità, senza prorompere in un grande scoppio di risa. Abu-Hassàn, che credeva il suo racconto degno di compassione così che ognuno dovesse esserne commosso, si scandalizzò molto di questo scoppio di risa del finto mercante di Mussul. "Voi vi burlate di me", gli disse, "ridendomi così in faccia, o credete forse che mi burli di voi, mentre vi parlo seriamente? Volete delle prove più convincenti di quanto vi ho raccontato? Ecco, osservate voi stesso, e dopo mi direte se scherzo." Nel dire tali parole si abbassò, e scoprendosi le spalle ed il petto, fece vedere al califfo le cicatrici e i lividi causati dai colpi ricevuti col nerbo di bue. Il califfo non poté guardarlo senza provarne orrore. Ebbe molta compassione del povero Abu-Hassàn e molto gli rincrebbe che il suo scherzo fosse andato più in là di quanto avesse immaginato. Ripresosi lo abbracciò di tutto cuore e gli disse con grande serietà: "Alzatevi, ve ne supplico, fratello mio caro. Venite e andiamo a casa vostra; voglio avere ancora l'onore di stare allegramente questa sera in vostra compagnia; domani, se piace al cielo, vedrete che tutto andrà meglio di quanto possiate immaginare". Abu-Hassàn, nonostante la sua risoluzione, e il giuramento che aveva fatto di non ricevere in casa sua lo stesso forestiero per due volte, non poté resistere alle affettuosità del califfo che egli credeva un mercante di Mussul. "Acconsento volentieri", disse al supposto mercante, "ma", aggiunse, "ad una condizione, che v'impegnerete con giuramento a osservare. Dovete farmi la grazia di chiudere la porta della mia camera nell'uscire da casa mia, perché lo spirito maligno non venga a confondermi la mente, come ha fatto la prima volta." Il finto mercante promise e poi si alzarono ambedue e s'incamminarono verso la città. Il califfo per impegnare maggiormente Abu-Hassàn, gli disse: "Abbiate fiducia in me, e io non mancherò alla mia promessa, ve lo prometto da uomo d'onore. Dopo ciò non dovete esitare a riporre tutta la vostra fiducia in una persona della mia qualità, che desidera per voi ogni sorta di bene e prosperità, di cui presto vedrete gli effetti". "Io non vi chiedo questo", riprese Abu-Hassàn fermandosi stupito, "mi arrendo di buon cuore alla vostra insistenza, ma vi dispenso dal farmi auguri, e vi supplico, in nome del cielo, di non farmene. Tutto il male che mi è capitato fino ad ora ha avuto origine, oltre che dalla porta aperta, dagli auguri che già mi avete fatti." "Ebbene", replicò il califfo, ridendo tra sé della fantasia ancora confusa di Abu-Hassàn, "giacché volete così, sarete obbedito e vi prometto di non farvene." "Mi fate gran piacere parlando così", gli disse Abu-Hassàn, "né vi domando altro. Sarò contento, se manterrete la vostra parola. Sarò così ripagato di tutto." Abu-Hassàn ed il califfo, accompagnato dal suo schiavo, conversando in tal modo, giunsero a casa di Abu-Hassàn. Egli chiamò subito sua madre, e si fece portare il lume. Pregò il califfo di sedersi sul sofà, prese posto accanto a lui, ed in poco tempo la cena fu pronta, servita sulla tavola che era lì vicina. Mangiarono senza cerimonie, e quando ebbero finito, la madre di Abu-Hassàn sparecchiò, e mise la frutta sulla tavola e il vino con le tazze vicino a suo figlio. Poi si ritirò, e non ritornò. Abu-Hassàn cominciò col versarsi del vino per primo, e ne versò poi al califfo. Essi vuotarono ognuno cinque o sei tazze, parlando sempre di cose indifferenti. Quando il califfo vide che Abu-Hassàn cominciava a sentire gli effetti del vino, portò il discorso sull'amore e gli chiese se avesse mai amato. "Fratello mio", rispose con familiarità Abu-Hassàn, che credeva di parlare a un suo eguale, "non ho mai considerato l'amore, o il matrimonio se preferite, che come una schiavitù, alla quale ho avuto sempre gran ripugnanza a sottomettermi, e fino ad ora vi confesso ho amato solo la tavola, la baldoria ed il buon vino; in una parola, non ho pensato che a divertirmi, e a godermela piacevolmente con i miei amici. Non dico però di essere indifferente al matrimonio, né incapace di affetto se potessi incontrare una donna bella e amabile come quelle che vidi in sogno nella notte fatale in cui vi accolsi la prima volta quando, per mia disgrazia, lasciaste la porta della mia camera aperta. Se essa accettasse di passare la sera con me a bere in mia compagnia, se sapesse cantare, suonare diversi strumenti, e intrattenermi piacevolmente; se insomma si sforzasse di compiacermi e di divertirmi, credo che la mia indifferenza si cambierebbe in un grandissimo amore per quella persona, e sarei felicissimo di vivere con lei. Ma dove trovare una donna tale quale ve l'ho dipinta, in altro luogo se non nel palazzo del gran principe dei credenti, o in quello del gran visir Giàafar, o degli altri signori più potenti della corte, ai quali non manca l'oro e l'argento per procurarsela? Preferisco restar fedele alla bottiglia, essendo questo un piacere che costa poco." Nel dire queste parole prese la sua tazza e la riempì di vino; dopo di che riprese: "Datemi la vostra tazza, perché ve la riempia, e continuiamo a gustare un piacere tanto dilettevole". Quando Harùn ar-Rashìd e Abu-Hassàn ebbero bevuto: "E' peccato", riprese il califfo, "che un uomo cortese come voi, e che non è contrario all'amore, faccia una vita tanto solitaria e ritirata". "Non mi è difficile", disse Abu-Hassàn, "preferire la vita tranquilla che faccio, alla compagnia di una donna, che forse non avrebbe una bellezza di mio gusto, e che d'altra parte mi causerebbe mille dispiaceri con le sue imperfezioni e col suo pessimo carattere." Dopo aver parlato molto a lungo su questo argomento, il califfo, avendo visto Abu-Hassàn nello stato d'animo che desiderava: "Lasciate fare a me", gli disse, "giacché avete in tutto i gusti delle persone oneste, voglio trovarvi io quello che fa per voi, senza che vi costi nulla". Dopo aver così detto, prese la bottiglia e la tazza di Abu-Hassàn, nella quale con molta destrezza gettò della polvere simile a quella di cui si era già servito l'altra volta, la riempì poi di vino, e, porgendogliela, disse: "Prendete e bevete sin d'ora alla salute di quella bella, che farà la vostra felicità per tutta la vita; ne sarete soddisfatto". Abu-Hassàn prese la tazza ridendo, e scuotendo il capo rispose: "Sia, giacché lo volete, e non saprei farvi una scortesia né scontentare un ospite del vostro merito per una cosa così da poco; bevo dunque alla salute della bella che mi avete promesso, però vi ripeto che, sono contento della mia sorte, e non faccio alcun conto sulla vostra promessa". Abu-Hassàn appena ebbe bevuto il vino, fu preso da un profondo torpore, come nelle altre due volte, e il califfo rimase di nuovo padrone di disporre di lui a suo piacimento. Ordinò subito allo schiavo, che aveva condotto con sé, di prendere Abu-Hassàn, e di portarlo al palazzo. Lo schiavo se ne andò col suo carico, e quando furono giunti al palazzo, il califfo fece coricare Abu-Hassàn sopra un sofà nel quarto salone, da dove era stato preso e ricondotto addormentato, alla sua casa, un mese prima. Prima di lasciarvelo disteso, comandò che gli fosse fatto indossare lo stesso abito, con cui era stato vestito allora per suo ordine, per fargli rappresentare il personaggio di califfo. Ordinò poi a ognuno di andare a dormire, e al capo degli eunuchi, agli altri ufficiali, ed alle stesse dame che erano in quel salone, quando aveva bevuto l'ultimo bicchiere di vino che lo aveva fatto addormentare, di ritrovarsi lì senza fallo la mattina seguente sul far del giorno al suo risveglio, e ingiunse a ognuno di rappresentare bene la propria parte. Il califfo andò a coricarsi, dopo aver fatto avvertire Masrùr di venire a svegliarlo in tempo per recarsi nella stanzetta dove si era già nascosto l'altra volta. Masrùr non mancò di svegliare all'ora stabilita il califfo, che si fece vestire in tutta fretta, ed uscì per andare nel salone dove Abu-Hassàn dormiva ancora. Trovò alla porta gli ufficiali degli eunuchi, quelli di camera, le dame e le cantanti che aspettavano il suo arrivo. In poche parole, disse loro quel che intendeva fare. Entrò poi e andò a collocarsi nella stanza chiusa da gelosie attraverso cui poteva vedere. Masrùr, tutti gli altri ufficiali, le dame e le cantanti entrarono dopo di lui, e si disposero intorno al letto sul quale Abu-Hassàn era stato coricato, in modo però da non impedire al califfo di vedere e di osservare tutto quel che accadeva. Tutte le cose essendo state così ordinate, e avendo la polvere del califfo cessato il suo effetto, Abu-Hassàn si svegliò senza aprir gli occhi, e buttò fuori un po' di muco, che fu raccolto in una piccola bacinella d'oro, come la prima volta. Allora sette cori di cantanti unirono le loro voci melodiose al suono dei cembali, dei flauti e degli altri strumenti, e formarono un concerto bellissimo. La sorpresa di Abu-Hassàn fu grandissima quando udì una musica tanto armoniosa. Aperti gli occhi, la sua meraviglia aumentò vedendo le dame e gli ufficiali che lo circondavano, e credendo di riconoscerle. Il salone in cui si trovava, gli parve lo stesso di quello che aveva visto nel suo primo sogno. Vi notò la stessa illuminazione, le stesse suppellettili e gli stessi ornamenti. Il concerto terminò, per dar modo al califfo di osservare il contegno del suo ospite e di ascoltare quanto avrebbe detto nella sua sorpresa. Le dame, Masrùr e gli ufficiali in gran silenzio stettero ognuno al suo posto, in atteggiamento rispettoso. "Ohimè!", esclamò Abu-Hassàn mordendosi le dita e con voce così forte che il califfo l'udì con molta gioia, "eccomi ricaduto nello stesso sogno e nella stessa illusione di un mese fa! Ora non mi resta che aspettarmi ancora una volta le bastonate col nerbo di bue all'ospedale dei matti, legato nella gabbia di ferro. Oh Dio!", proseguì, "mi ripongo interamente nelle mani della vostra provvidenza! E' un uomo malvagio quello che ieri sera accolsi in casa mia; è lui che mi provoca questa illusione e le pene che ne devo soffrire. Traditore, perfido! M'aveva promesso con giuramento di chiudere la porta della mia camera nell'uscire, ma non l'ha mantenuta, e lo spirito malefico è entrato di nuovo, e mi va sconvolgendo il cervello con questo maledetto sogno di gran principe dei credenti e con tanti altri fantasmi, con i quali mi abbaglia la vista. Il cielo ti confonda, o Satana, e che tu sia sepolto sotto un monte di pietre!" Dopo queste ultime parole, Abu-Hassàn chiuse gli occhi, e se ne stette raccolto in se stesso con lo spirito molto confuso. Un momento dopo li riaprì, girandoli dall'una all'altra parte su tutti gli oggetti che si presentavano al suo sguardo. "Gran Profeta", esclamò ancora una volta con minore stupore, "io mi rimetto interamente nelle mani della vostra provvidenza; preservatemi da questa tentazione di Satana." Chiudendo poi gli occhi: "So", continuò, "ciò che debbo fare; mi addormenterò ancora, perché Satana mi lasci in pace e torni da dove è venuto, quand'anche dovessi aspettare fino a mezzodì". Ma non gli fu concesso di riaddormentarsi come si era proposto, perché Forza dei Cuori, una delle dame che aveva visto la prima volta si accostò e sedutasi sull'orlo del letto gli disse con tutto rispetto: "Gran principe dei credenti, supplico la maestà vostra di perdonarmi se mi prendo la libertà di avvertirla di non riaddormentarsi: fate ogni sforzo per svegliarvi e alzarvi giacché il giorno comincia ad apparire". "Vattene, Satana!", disse Abu-Hassàn nell'udire quella voce. Guardando poi Forza dei Cuori, le disse: "Son io quello che voi chiamate gran principe dei credenti? Voi certamente mi prendete per un altro". "Alla maestà vostra appunto", replicò Forza dei Cuori, "io attribuisco questo titolo che le appartiene, come al sovrano dei musulmani che vi sono al mondo, e di cui sono umilissima schiava." "Vostra maestà vuole divertirsi", aggiunse, "o forse ha fatto qualche strano sogno, ma se vorrà aprire gli occhi, vedrà che tutte le nubi che le confondono la mente si dissiperanno e vedrà che è nel suo palazzo, circondato da suoi ufficiali e da noi, sue schiave, pronte a servirla. Del resto non dovete meravigliarvi di trovarvi in questa sala e non nel vostro letto: ieri sera vi siete addormentato così profondamente e così improvvisamente che non abbiamo voluto svegliarvi, portandovi fino alla vostra stanza e abbiamo preferito coricarvi su questo sofà." Forza dei Cuori disse tante altre cose ad Abu-Hassàn così convincenti, che finalmente lui si mise a sedere. Aprì gli occhi e la riconobbe, insieme a Vezzo di Perle, e alle altre dame che aveva già visto. Esse allora si accostarono tutte insieme, e Forza dei Cuori riprese il suo discorso: "Gran principe dei credenti, e vicario del Profeta in terra, la maestà vostra troverà conveniente che di nuovo l'avvisiamo che è ormai tempo di alzarsi, perché il giorno comincia ad apparire". "Voi siete persone pericolose e importune", replicò Abu-Hassàn fregandosi gli occhi, "io non sono il gran principe dei credenti, ma Abu-Hassàn, e ne sono così certo che non potrete farmi credere il contrario." "Noi non conosciamo questo Abu-Hassàn, di cui vostra maestà ci parla", soggiunse Forza dei Cuori, "e neppure vogliamo conoscerlo: ma conosciamo la maestà vostra che è il gran principe dei credenti ed ella non ci persuaderà mai di non esserlo." Abu-Hassàn volgeva gli occhi da ogni parte, e sembrava meravigliato di vedersi nello stesso salone nel quale era già stato: ma attribuiva tutto ciò a un sogno eguale a quello dell'altra volta e ne temeva le conseguenze funeste. "Ah!", esclamò, alzando le mani e gli occhi come un uomo che non sappia dove sia, "mi rimetto nelle mani di Maometto! Dopo quanto vedo, non posso dubitare che lo spirito malefico, si sia introdotto nella mia camera, e ora mi tenga in suo potere e mi confonda la mente, con tutte queste visioni." Il califfo, che lo vedeva e che udiva tutte le sue esclamazioni, si mise a ridere con tanta allegria che fece grande fatica a non farsi sentire. Abu-Hassàn era tornato a coricarsi, e aveva chiuso di nuovo gli occhi. "Gran principe dei credenti", disse subito Forza dei Cuori, "giacché la maestà vostra non si alza, benché l'abbiamo avvertita che è giorno, come il nostro dovere esige, e che è ora che si occupi degli affari dello stato, faremo uso del permesso che ci ha accordato per queste situazioni." Ciò detto lo prese per un braccio e chiamò le altre dame, che l'aiutarono a farlo uscire dal letto e lo portarono, per così dire, fino nel mezzo del salone dove lo misero a sedere. Si presero poi per mano e ballarono e saltarono intorno a lui al suono di tutti gli strumenti e di tutti i cembali che suonavano rumorosamente sopra il suo capo e accanto alle sue orecchie. Abu-Hassàn era in grande perplessità. "Che io sia veramente il califfo ed il gran principe dei credenti?", diceva tra sé. Nell'incertezza in cui era, voleva dire qualche cosa: ma il grande strepito di tutti gli strumenti gli impediva di farsi ascoltare. Fece cenno a Vezzo di Perle ed a Stella del Mattino, che si tenevano per la mano ballando, mostrando di voler parlare e quelle fecero cessare subito il ballo e la musica e si accostarono a lui. "Non mentite", disse loro con molta ingenuità, "e ditemi veramente chi sono." "Gran principe dei credenti", rispose Stella del Mattino, "la maestà vostra vuol sorprenderci con questa domanda, come se ella non sapesse da sé di essere il gran principe dei credenti ed il vicario in terra del Profeta, padrone dell'uno e dell'altro mondo, di questo in cui siamo e dell'altro che sarà dopo la morte! Se ciò non fosse, bisognerebbe che uno stravagante sogno le avesse fatto dimenticare chi è. Potrebbe benissimo essere accaduto, se si considera che la maestà vostra ha dormito stanotte ben più a lungo del solito. Ma se me lo permette, le farò ricordare quanto fece ieri in tutto il giorno." Essa dunque gli narrò il suo ingresso nel consiglio, l'ordine di punire l'imàm e i quattro vecchi che aveva dato al luogotenente di polizia, il regalo di una borsa di dinàr spedito per mezzo del suo visir alla madre di un certo Abu-Hassàn; quello che aveva fatto nell'interno del palazzo e quanto gli era accaduto alle tre mense imbandite nei tre saloni, fino all'ultimo. "La maestà vostra", continuò lei, voltandosi verso di lui, "dopo averci fatto sedere a tavola al suo fianco, ci fece il grande onore di udire i nostri canti e di ricevere il vino dalle nostre mani, fino al momento in cui la maestà vostra s'addormentò nel modo che Forza dei Cuori le ha narrato. Dopo la maestà vostra, contrariamente al suo solito, ha dormito sempre di un sonno profondo fino ad ora; ed è giorno. Vezzo di Perle, tutte le schiave e gli ufficiali, qui presenti, vi diranno la stessa cosa. E ora la maestà vostra si metta in condizione di fare la sua preghiera, poiché è l'ora." "Bene, bene", replicò Abu-Hassàn scuotendo il capo, "voi me lo fareste certo credere, se vi volessi dare ascolto. Ed io", continuò, "vi dico che siete tutte pazze e avete perso il senno, il che è un gran peccato, perché siete tanto belle. Sappiate che da quando non vi ho visto sono andato a casa mia e ho maltrattato mia madre, e sono stato condotto all'ospedale dei matti, dove, contro la mia volontà, son rimasto per più di tre settimane, durante le quali il custode non ha lasciato passare giorno senza darmi cinquanta colpi di nerbo di bue; o vorreste farmi credere che tutto questo è stato solo un sogno? Voi vi burlate di me." "Gran principe dei credenti", replicò Stella del Mattino, "eccoci pronte tutte quante a giurare, per tutto ciò che la vostra maestà ha di più caro, che quanto lei ci ha raccontato non può essere che un sogno. Lei da ieri non è uscito da questo salone, e ha dormito tutta la notte fino ad ora." L'insistenza con la quale questa dama assicurava ad Abu-Hassàn che quanto gli diceva era vero e che non era uscito dal salone da quando vi era entrato, lo mise di nuovo in uno stato di incertezza per cui non sapeva più cosa pensare. Se ne stette per qualche tempo immerso nei suoi pensieri. "Oh cielo", diceva fra sé, "sono Abu-Hassàn o sono il gran principe dei credenti? Cielo, illuminate la mia mente, fatemi conoscere la verità, affinché io sappia che cosa devo credere." Si scoprì allora le spalle ancora tutte coperte di lividi per i colpi ricevuti, mostrandole alle dame: "Vedete", disse loro, "e giudicate se simili colpi possono esser prodotti in sogno o dormendo! In quanto a me vi posso assicurare che mi sono stati inflitti veramente e il dolore che sento ancora è una prova tale che non posso dubitarne. Se ciò invece mi è accaduto mentre dormivo, questa è la più stravagante e la più meravigliosa avventura del mondo, e vi assicuro che non posso crederla." Nell'incertezza in cui Abu-Hassàn si trovava sulla sua identità, chiamò uno degli ufficiali del califfo che stava vicino a lui: "Accostatevi", gli disse, "e mordetemi l'orecchio, perché giudichi se dormo o se son desto". L'ufficiale si accostò, gli afferrò l'orecchio fra i denti e tanto fortemente lo strinse, che Abu-Hassàn proruppe in uno spaventevole grido. A tal grido tutti gli strumenti di musica suonarono nello stesso tempo, e le dame e gli ufficiali si misero a ballare, a cantare e a saltare intorno ad Abu-Hassàn con tanto strepito che egli entrò in uno stato d'euforia che gli fece fare mille pazzie. Si mise a cantare come gli altri: lacerò l'abito da califfo, col quale era stato vestito, gettò a terra la berretta che teneva sul capo, e rimanendo in camicia e mutande, si alzò, e si mise fra due dame che pigliò per le mani, mettendosi a cantare, a danzare e a saltare con tanti gesti e movimenti e contorsioni buffonesche e ridicole, che il califfo non poté più contenersi nel nascondiglio dove stava. L'inaspettata buffoneria d'Abu-Hassàn lo fece ridere tanto che si lasciò cadere all'indietro e il rumore che fece fu molto superiore allo strepito degli strumenti musicali e dei cembali. Stette così a lungo senza potersi calmare, che poco mancò non si sentisse male. Finalmente si rialzò, ed aprì la gelosia. Allora esclamò alzando il capo e ridendo: "Abu-Hassàn, Abu-Hassàn, vuoi dunque farmi morire a forza di ridere?". Alla voce del califfo tutti tacquero e lo strepito finì. Abu-Hassàn si fermò con gli altri, e girò il capo dalla parte dalla quale aveva udito la voce. Riconobbe il califfo, e nello stesso tempo il mercante di Mussul. Egli non si sconcertò per questo; al contrario comprese subito di essere ben sveglio e che l'accaduto era realtà e non un sogno. Comprese lo scherzo e l'intenzione del califfo. "Ah! ah!", esclamò guardandolo con coraggio. "Eccolo dunque il mercante di Mussul. Come! Voi vi lamentate che vi faccio morire voi che siete causa dei pessimi trattamenti che ho fatto subire a mia madre e di quelli che ho subiti io per lungo tempo all'ospedale dei matti? Voi che avete trattato tanto malamente l'imàm della moschea del mio quartiere, ed i quattro sceicchi miei vicini, giacché non sono stato io, e me ne lavo le mani? Voi che mi avete causato tante pene di spirito e tanti guai? Insomma il colpevole siete voi e io sono la vittima." "Hai ragione, Abu-Hassàn", rispose il califfo, continuando a ridere, "ma per consolarti, e compensare tutte le tue pene, sono pronto, e chiamo il cielo a testimonio, a concederti quel risarcimento che vorrai indicarmi a tua scelta." Dette queste parole il califfo uscì dal nascondiglio ed entrò nel salone. Si fece portare uno dei suoi begli abiti, e comandò alle dame di compiere le funzioni degli ufficiali di camera, e di rivestirne Abu-Hassàn. Quando esse l'ebbero vestito: "Tu sei mio fratello", gli disse il califfo abbracciandolo, "chiedimi quanto può farti piacere, ed io te lo concederò". "Gran principe dei credenti", riprese Abu-Hassàn, "supplico la maestà vostra di concedermi la grazia di dirmi come ha fatto per sconcertarmi in tal maniera la mente, e qual è stato il suo scopo. Questo adesso m'importa più d'ogni altra cosa per ricomporre del tutto l'animo mio." Il califfo si degnò concedere questa soddisfazione ad Abu-Hassàn, dicendogli: "Devi sapere prima di tutto che io mi travesto spesso, e in particolare la notte, per constatare di persona se tutto è in ordine nella città di Bagdàd. E ho gran piacere di sapere anche ciò che accade nei dintorni per cui mi sono prefisso di fare il primo di ogni mese un gran giro fuori città, ora dall'una, ora dall'altra parte, e ritorno sempre per il ponte. Ritornavo da una gita, la sera in cui tu mi invitasti a cenare in casa tua. Durante la nostra conversazione mi dicesti che avresti voluto essere califfo e gran principe dei credenti per ventiquattr'ore per ridurre al dovere l'imàm della moschea del tuo quartiere e i quattro sceicchi suoi consiglieri. Il tuo desiderio mi parve adatto per procurarmi un divertimento, e con questa intenzione pensai subito al mezzo di procurarti la soddisfazione che desideravi. Io portavo con me una certa polvere, che fa dormire nello stesso momento in cui viene presa e non fa risvegliare se non dopo un certo tempo: senza che te ne accorgessi, ne gettai una certa dose nell'ultima tazza che ti presentai e che bevesti. ... continua a leggere la parte quarta Enciclopedia termini lemmi con iniziale a b c d e f g h i j k l m n o p q r s t u v w x y z Storia Antica dizionario lemmi a b c d e f g h i j k l m n o p q r s t u v w x y z Dizionario di Storia Moderna e Contemporanea a b c d e f g h i j k l m n o p q r s t u v w y z Lemmi Storia Antica Lemmi Storia Moderna e Contemporanea Dizionario Egizio Dizionario di storia antica e medievale Prima Seconda Terza Parte Storia Antica e Medievale Storia Moderna e Contemporanea Dizionario di matematica iniziale: a b c d e f g i k l m n o p q r s t u v z Dizionario faunistico df1 df2 df3 df4 df5 df6 df7 df8 df9 Dizionario di botanica a b c d e f g h i l m n o p q r s t u v z |
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